QUATTRO DOMANDE AD AMINTA PIERRI
A cura di Angelica Rivetti
A. Eccetera è il titolo che hai voluto dare al progetto che porterai in Fonderia la prima settimana di settembre e che vedrà un momento “conclusivo” domenica 5, momento che abbiamo deciso di chiamare “Epilogo” anche se probabilmente non rappresenterà la fine di nulla, ma semplicemente il resoconto del lavoro svolto durante le tre giornate in galleria. Ci racconti il significato del titolo di questo progetto e che tipo di approccio pensi di utilizzare all’interno di questo contesto di sperimentazione?
A.P. : Eccetera è un termine di derivazione latina che significa: “e le cose rimanenti”. È legato all’idea di accumulazione, di serie potenziale, frammenti appartenenti a un tutto che resta sospeso e al quale rimangono legati dalla congiunzione e.
Et cetera. E le cose che restano.
Il valore dell’accumulazione in questo lavoro è fondante, rappresenta il perno sul quale ruota il concetto e, contemporanea- mente, il processo messo in atto. La serie potenziale e infinita porta il seme del divenire perché non si chiude, non si dice, non finisce. È un tentativo fallimentare di rappresentazione perché si percepisce ma non si mostra. Il mio obiettivo sarà rendere gesto e spazio questo movimento circolare intorno alla A, iniziale del nome di mia madre e mio, idealmente origine e forma in divenire. In maniera più lineare potrei dire che da una tesi/desiderio ho formulato tre ipotesi/capitoli e che la sintesi risiederà nel “luogo” che vorrei creare da Fonderia.
Da una prima genesi Pneuma, che nel 2017 è stata una mostra a Torino presso Jest, i frammenti derivati dal dramma hanno continuato il loro deragliamento portandomi a considerare quella come la prima di emozioni diverse che non riuscivo ad assimilare in una sintesi univoca.
Così, da quello che considero la rappresentazione di un evento di impotenza, ho camminato attraverso un tentativo di descrizione che però non poteva che fallire, e a cui ho dato il nome “Un oggi dagli occhi incapaci di vedere un poeta” da un verso di Arakawa Yoji, per il quale mi servo di una proiezione rotta che non riesce a mantenere il fuoco sul suo obiettivo. La terza condizione “Un’ultima volta riflette scoperta, senza di voi”, frase ricavata da un brandello di giornale trovato per caso – per accadimento appunto – presenta una serie di diversi livelli: fotografie, foto d’archivio, oggetti, vernice in cui è il gesto del metterli assieme e dell’uso del colore materiale a renderli oggetti immagine, più ancora della loro natura. La sperimentazione che Fonderia mi darà l’occasione di innescare sarà quella di una realizzazione in divenire, un gesto che è immagine e diventa luogo e si stratifica esattamente come in una delle azioni che si svolgeranno grazie alla colatura della vernice (ossidata perché rimasta aperta per circa trent’anni) sulle stampe fotografiche e al loro conseguente cambiamento di stato.
Mi verrebbe da definirlo come un processo alchemico tra più stati di materia e immagine.
Osservando e leggendo di alcuni tuoi lavori conclusi e in divenire, sembra emergere una volontà di dare vita a immagini fotografiche in bilico tra qualcosa di originale e qualcosa di originario. Come se la riscoperta di materiali appartenenti alla tua storia famigliare possa essere la chiave di letture del tuo presente e di un ipotetico futuro. L’utilizzo di elementi eteroge- nei come materiali d’archivio, immagini, oggetti del passato, parole, opere d’arte, ricordi immateriali o meno, in che modo si sviluppa poi concretamente nella tua pratica artistica?
A. P. : L’interesse nel mezzo fotografico risiede per me nella sua valenza di impronta, di calco. Esso porta con sé la narrazione di un disagio rappresentativo. Il deve esserci stato e, soprattutto, il non deve esserci più lì dov’era, creano un vuoto, o meglio rendono evidente quel vuoto sensibile che intercorre tra una forma e la sua rappresentazione. È in questo modo che leggo l’immagine fotografica come un dispositivo di memoria atemporale: è un gesto, un’azione che genera ora usando un verbo al tempo passato. Quello che cerco è una resa di esperienza in qualità del luogo benjaminiano del ricordo, per arrivare alla quale uso oggetti cercati, più che trovati, e oggetti immagine.
“Chi tenta di accostarsi al proprio passato sepolto deve comportarsi come un individuo che scava. Soprattutto non deve temere di tornare continuamente a uno stesso identico tenore corale – di disperderlo come si disperde la terra, di rivoltarlo come si rivolta la terra stessa. Giacché gli “stati di cose” non sono altro che strati che consegnano, solo dopo la ricognizione
più accurata, ciò che giustifica tale scavo. E s’inganna sui lati migliori chi fa solo l’inventario degli oggetti ritrovati e non sa indicare nel terreno attuale esattamente il luogo in cui era conservato l’antico. Così i ricordi veri devono non tanto procedere riferendo, quanto piuttosto designare esattamente il luogo nel quale colui che cerca si è impadronito di loro.” (Benjamin in Didi-Huberman, 2008)
Coniugare radici e accadimento, trattando i pezzi che ne vengono generati come una sorta di reperti contemporanei. In termini più pratici, la stratificazione di esperienze e cose a loro relative mi porta ad una fase di selezione che interseca livelli e materiali diversi e che, inevitabilmente, porta a nuove esperienze legate soprattutto al gesto selettivo e creativo stesso. Poi cerco di mettere in piedi questo teatro anacronistico e di guardare cosa accade.
Anche il non finito e l’incompletezza sono elementi che ricorrono spesso nel tuo lavoro, come ad esempio il tuo primo progetto in divenire I’d like to go by climbing a birch tree, dedicato a tua madre. Anche A. Eccetera, mostra la volontà di non concludersi qui, ma anzi di tentare nuove forme di espressione. Ritieni che l’evoluzione e il cambiamento siano talvolta più importanti e necessari del trovare una forma definita/definitiva e quindi una risposta finale all’interno di un progetto creativo?
A.P.: “Vorrei andarmene scalando un albero di betulla” è un verso di Robert Frost ed è stata la prima forma di A. eccetera. Tornerà quindi adesso a far parte di quel tutto, ne comporrà un frammento che spero continuerà a creare scintille all’interno di quel processo.
Credo sia una questione di corrispondenza. L’approccio al lavoro non è per me diverso dall’approccio alla vita. Considero i miei lavori innanzitutto come i modi in cui cerco di rispondere a degli interrogativi che diventano a loro volta risposte alla mia percezione e tutto procede in ordine sparso. Mi sembra che ogni lavoro e anche ogni procedimento come un tassello aggiun- gano un pezzo di senso a delle grandi ossessioni. È che la risposta diviene, non è mai.
Le Corbusier parlava di “frammenti di elementi naturali” – riferendosi a pietre, fossili, schegge che si trovano ai margini delle strade o lungo il mare – come di oggetti in grado di trasmettere oltre a qualità scultoree anche “uno straordinario potenziale poetico”.
Pensando al tuo lavoro e all’eterogeneità degli elementi che utilizzi, è particolarmente interessante l’attenzione che spesso poni nell’oggetto-scultura (come, ad esempio, nei progetti Nessuna elegia e A.Eccetera, ma anche nell’essenza stessa del libro fotografico). Cosa ci puoi dire del tuo rapporto con gli oggetti e con la loro materialità poetica all’interno del tuo lavoro?
A.P.: Ho in mente la “Poetica degli oggetti” di Montale, gli “Oggetti in meno” di Pistoletto, gli “Oggetti quasi” di Saramago, e queste parole di Giacometti: “La scultura risiede nel vuoto, lo spazio esiste quando lo si scava per costruire l’oggetto e a sua volta l’oggetto crea lo spazio, è lo stesso spazio che si forma tra il soggetto e lo scultore”.
Decidere dove spezzare un verso mi sembra un’azione simile allo scavo del vuoto scultoreo. Alla poesia appartiene la defi- nizione del fare, del produrre. La poesia è un atto, ha una percezione materica, un senso tattile, e per questo, credo, la uso in particolare per i titoli dei miei lavori, perché la assimilo ad un oggetto, ad un gesto in forma di parola, e questa fluidità mi sembra trasversale. E la scelta di usare materiali diversi determina una condizione di spazio dei miei lavori che chi guarda, oltre che me, deve gestire.
Questo rapporto di interdipendenza e spazialità mi interessa quanto il concetto.